Pattern

Pensioni in aumento, ma la tassazione erode tutti i guadagni: le simulazioni

Pensioni in aumento, ma la tassazione erode tutti i guadagni: le simulazioni

Il Ministero dell’Economia ha ufficializzato i nuovi tassi di perequazione delle pensioni per il 2025 e il 2026. Gli aumenti saranno dello 0,8% da gennaio 2025 e dell’1,4% da gennaio 2026, adeguamenti legati all’inflazione registrata negli ultimi due anni. Ma, secondo un’analisi elaborata da Cgil e Spi Cgil, questi incrementi risultano “assolutamente insufficienti” e vengono in gran parte assorbiti dal sistema fiscale, riducendo drasticamente l’aumento reale in busta.

I MOTIVI DEL TAGLIO

La cifra che finisce realmente nelle tasche del pensionato è frenata da due meccanismi principali. Il primo è il sistema di perequazione a fasce, introdotto con la legge Fornero: la rivalutazione è piena solo fino a quattro volte il minimo (603,40 euro), scende al 90% tra quattro e cinque volte il minimo e si riduce al 75% per gli importi superiori. Questo modello, già di per sé selettivo, comprime gli adeguamenti delle pensioni medio-alte.

Il secondo elemento, ancora più rilevante, è la tassazione. L’Irpef — con addizionali regionali e comunali — scatta una volta superata la no tax area di 8.500 euro annui. Anche un aumento modesto dell’importo lordo può far rientrare il pensionato in uno scaglione più alto o aumentare la percentuale media di imposta. In altre parole, una parte della rivalutazione viene riassorbita dal fisco.

LE SIMULAZIONI

Secondo i calcoli dei sindacati, nel 2026 la rivalutazione lorda cumulata raggiungerà il +16,46%. Tuttavia, una volta applicata la tassazione, l’aumento netto si riduce di alcuni punti percentuali, con effetti molto diversi a seconda dell’importo iniziale.

Una pensione lorda di 800 euro nel 2022 salirà a 932 euro nel 2026 (+16,46%), ma il netto passerà da 757 a 850 euro, pari al +12,27%. Un assegno da 1.000 euro lordi crescerà a 1.165 euro (+16,46%), con un netto che passa da 898 a 1.014 euro (+12,93%). Per una pensione da 2.000 euro lordi, l’importo diventerà 2.329 euro (+16,46%), mentre il netto aumenterà da 1.591 a 1.824 euro (+14,68%).

Il risultato complessivo è chiaro: a fronte di un incremento lordo del +16,46%, molti pensionati vedono un aumento netto che oscilla tra il 12% e il 13%, percentuale inferiore all’inflazione cumulata del periodo. Ciò crea un divario crescente tra l’aumento formale e la reale capacità di spesa.

IL PARADOSSO: CHI HA CONTRIBUITO DI PIÙ RICEVE DI MENO

L’analisi della Cgil mette in luce un ulteriore problema, definito un vero e proprio “paradosso redistributivo”. Il confronto tra pensioni previdenziali e prestazioni assistenziali — come l’Assegno Sociale — mostra come il sistema fiscale possa invertire l’equilibrio tra contribuzione e importo percepito.

Le prestazioni assistenziali, infatti, sono esenti da imposizione, mentre quelle previdenziali superano quasi sempre la soglia della no tax area. Questo può portare a situazioni paradossali: un titolare di Assegno Sociale, che parte da 384,62 euro, può arrivare a percepire 749,11 euro netti, senza alcuna trattenuta. Un pensionato con 692,31 euro previdenziali e soggetto a Irpef scende a 710,47 euro netti, ossia 38 euro in meno rispetto al beneficiario assistito, pur avendo una storia contributiva più lunga. Un assegno di 807,69 euro, privo di maggiorazioni e con tassazione piena, si riduce a 745,97 euro: circa 3 euro in meno rispetto alla prestazione assistenziale.

Secondo i sindacati, ciò dimostra che chi ha lavorato e contribuito di più può ritrovarsi con meno in tasca rispetto a chi riceve una misura assistenziale, nonostante condizioni di fragilità simili. Un effetto che rischia di ampliare ulteriormente la distanza tra pensioni contributive e strumenti di sostegno al reddito.

Share: